Jacques
Stroumsa
Nato a Salonicco nel 1913,
da genitori ebrei sefarditi, laureato in ingegneria e diplomato in
violino in Francia, è stato deportato ad Auschwitz nell’aprile 1943,
dove per un mese ha suonato nell’orchestra maschile di Birkenau.
Trasferito succes-sivamente nel campo principale, è riuscito a
sopravvivere lavorando presso l’ufficio di progettazione tecnica.
Evacuato nel gennaio 1945 a Mauthausen, è stato liberato l’8 maggio
1945 nel sottocampo di Gusen II. Dopo un lungo periodo trascorso in
Francia, sul finire degli anni ’60 si è stabilito a Gerusalemme,
dove tuttora abita.
Leoncarlo
Settimelli
Musicologo, giornalista e regista, ha svolto intensa attività di
ricerca nel campo della musica folklorica e sociale. Collabo-ratore
della RAI, per cui ha ideato e realizzato diversi documentari, con
il film Il Mistero di Rossini è stato finalista al Mid-fed di Cannes
nel 1990. Alla Biennale Musica di Venezia del 1991 ha diretto con
Sylvano Bussotti sei Video-giornali sul-l’avanguardia musicale. Sui
temi dell’incontro ha pubblicato Dal profondo dell’inferno. Canti e
musica al tempo dei lager (Venezia, Marsilio, 2001).
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Dopo il
nostro arrivo al campo [di Birkenau] e la scomparsa di mia moglie e dei
miei genitori, fu la musica che mi permise di non soc-combere alla
disperazione, perché un uomo senza speranza era già un uomo morto. La
musica mi permise di sopportare l’insopportabile. […]. Malgrado il dolore
mi ritrovai nel mio elemento. La mattina si suonava-no delle marce mentre
le squadre uscivano per il lavoro. Poi si restava soli e si suonava musica
classica. […]. Grazie alla musica non sono mor-to moralmente.
Jacques Stroumsa, Violinista ad Auschwitz, p. 6 |
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giovedì 15 maggio 2003
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Leoncarlo Settimelli
VERONA -
Cinquantotto anni fa uscì vivo dal lager di Gusen, dove era stato
trasferito da Auschwitz. E a novanta anni compiuti, più vispo che mai, ha
accolto l’invito della Società Letteraria di Verona per venire a parlare
della propria storia di violinista dell’orchestra del lager, ripetendo che
quel violino gli ha salvato la vita. Sto parlando di Jacques Stroumsa,
ebreo sefardita di Salonicco, che ha dedicato la propria esistenza al
ricordo della Shoah. Gli ero accanto, qui a Verona, ad un tavolo che
prometteva ufficialità e che invece si è presto trasformato in una ribalta
ed è stato impossibile non essere travolti dai suoi ricordi. Che egli
tuttavia non drammatizza, e anzi offre alla platea col sorriso dei
vincitori, non dei vinti. Pensavo infatti, seguendo le sue parole, come
avesse ragione quel partigiano torinese che tornato dal lager nazista
affermava: «Siamo noi, alla fine, che abbiamo vinto…».
La Società Letteraria
di Verona è un ambiente un po’ austero, ma entrando ti accorgi subito di
che pasta sono fatti i suoi animatori che mi mostrano la targa dedicata ai
soci che furono espulsi con le leggi razziali fasciste del 1938. Scorro i
nomi e vedo i Bassani, i Lombroso, i Finzi, gli Artom: una ventina di soci
che di fronte a quella decisione provarono a protestare, sostenendo che se
i provvedimenti razziali riguardavano le istitutuzioni pubbliche, che
c’entrava una associazione privata come la Società Letteraria? Ma nulla da
fare: chi dirigeva il consesso volle uniformarsi a quelle leggi. Dopo la
guerra, quegli stessi uomini decisero di riammettere gli espulsi con una
caritatevole lettera circolare. Non si accorsero neppure che due di loro
erano morti nei campi di sterminio. Ma i soci di oggi hanno voluto
ricordare quell’ignominia e la targa è la prima cosa che si vede entrando
nella sede, che sta proprio di fronte all’Arena.
Jacques Stroumsa ha
portato con sé, come fa sempre, il violino, Aveva cominciato a suonarlo a
12 anni, studiando con il maestro italiano Livio Marchesini, originario di
Padova, insegnante a Salonicco. Salonicco era allora chiamata la
Gerusalemme d’Europa e nella comunità ebraica, assai numerosa, vi si
parlavano tutte le lingue (Jacques infatti si esprime bene anche in un
misto di italiano e spagnolo). Suo padre decise di farlo diventare
violinista, ma Jacques studiò contemporaneamente ingegneria. Perché,
spiega, o uno diventa un grande virtuoso o e meglio che faccia un’altro
mestiere. Come poi ha fatto. Andato a vivere in Israele, è l’autore del
progetto della pubblica illuminazione di Gerusalemme, cosa che gli attirò
le critiche di molti ortodossi, i quali gli rimproveravano di fare troppa
luce per le strade, mentre la luce deve venire esclusivamente da Dio. Lui
rispondeva tuttavia che se un cittadino cadeva e si faceva male non era a
Dio che si rivolgeva, ma al comune, per ottenere un risarcimento danni.
Tornando al ricordo
del lager, Stroumsa (che venne deportato con tutta la famiglia) racconta
di quando scese dal treno col violino nella mano sinistra e nella destra
la mano di sua moglie Nora. Immediatamente una SS lo colpì prima sull’uno
e poi sull’altro avambraccio, sequestrandogli il violino. Ma quando
dichiarò di saper suonare lo strumento, Jacques venne inserito
nell’orchestra del campo che aveva il compito di suonare per la marcia che
accompagnava l’uscita dei prigionieri dal campo.
Gli chiedo oggi quali
fossero quelle marce, ma lui non ne ricorda i titoli e accenna a qualche
motivo. «Marce militari tedesche», conferma con svogliatezza, come se
preferisse dimenticare di averle suonate . Quello che gli piace ricordare
è che invece, nei momenti in cui non era impegnato nell’orchestra, suonava
Mozart e Beethoven. Gli chiedo anche se suonassero Wagner, ma lui
smentisce e trova fra l’altro che la musica di Wagner sia bellissima e non
capisce perché i suoi connazionali non la vogliano ascoltare. Niente
Wagner, dunque. E canzoni e operette? Stroumsa tira fuori allora
dall’astuccio del violino una piccola partitura che da noi si chiama
«orchestrina», cioè un libretto di fogli staccati che viene mandato ai
piccoli complessi, completi di partiture per i diversi strumenti. Quella
che mi mostra è solo la parte per violino, ma non ricorda di averla mai
suonata, né perché gli sia capitata tra le mani. Ma per me, ricercatore di
musiche e canzoni suonate nei lager, questa partitura è importantissima.
Si tratta di un Fox tror dal titolo “Abends in der kleinen Bar” (Serata
nel piccolo bar), gli autori sono Conny Graff e Edmund Kötscher,
l’edizione è del 1938 e c’è un timbro sopra che certifica che la partitura
è appartenuta alla «Häft. Kapelle (Coro dei prigionieri) KL (Koncentrazion
Lager) Auschwitz» Dunque, qualcun altro suonava e cantava – come peraltro
già sappiamo – canzonette come questa ad Auschwitz, probabilmente per
allietare compleanni del capo del lager e dei suoi immediati sottoposti. O
forse per rendere meno meccanica la visita delle SS nei bordelli.
Stroumsa non parla di
questo, perché lui testimonia solo cio ciò che ha visto e ad Auschwita e a
Birkenau sa di aver visto l’inferno. Poi mostra il proprio numero di
matricola, e un triangolino, tatuati sull’avambraccio sinistro, proprio
vicino al gomito. Non sa del putifero scatenato da Nolte, a Roma, ma una
sua affermazione cade a proposito, quando dice (ed è l’unica volta che si
infervora) che «chiunque neghi o voglia ridimensionare ciò che è accaduto
nei lager, venga a discutere con me!».
Poi tace di colpo e
afferra il violino e suona una melodia struggente che esce dalle finestre
aperte e sembra voler sfidare i kolossal lirici che stanno per prendere il
via nell’Arena. E’ una melodia straziante: si tratta di Eli Eli,
una canzone che una partigiana internata scrisse ad Auschwitz prima di
morire. Alla fine il pubblico è in piedi ed applaude per buoni cinque
minuti, decretando a Jacques un tributo commosso e pieno di significati.
Ma non basta, Da una porta laterale si sente la stessa melodia ripresa da
Angel J.Harkatz, accompagnato da un violino e da una fisarmonica. Karkatz,
ebreo argentino, è il cantore della Sinagoga di Verona ed ha una voce
portentosa. Tutto improvvisato, ma l’effetto è grande e l’incontro con
Stroumsa (e col sottoscritto e Carlo Saletti) si trasforma in una gran
festa, cui partecipa anche il gruppo Meshuge Klezmer Band. Le finestre
aperte rimandano il suono in tutta Piazza Bra’ e sono sicuro che se ne
saranno beati tutti i turisti che in questa stagione la affollano. E
scopro contemporaneamente che in quella stessa ora di quello stesso 8
maggio di 60 anni fa, Stroumsa era sceso dal treno della morte ad
Austchwitz e alla stessa ora di quello stesso 8 maggio di 58 anni fa egli
aveva ottenuto la libertà a Gusen. La festa che la civilissima Società
Letteraria di Verona gli stava tributando non poteva essere più puntuale.
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