|
lunedì 9 giugno 2003, pag. 26
|
Poesia Festival. A Corte Montenar i monologhi
dissacranti e sarcastici di Rosaria Lo Russo
Una Penelope stufa e nevrotica che non ha voglia
di aspettare Ulisse
Paola Azzolini
Corte
Montenar è un luogo incantevole isolato sulla collina che domina la
Valpolicella a Bure e di sera dalla balconata antica si vedono giù, in
basso, le luci della valle e della città. Lì, sui gradini di pietra
corrosa dal tempo, sullo sfondo delle inferriate delle grandi finestre
secentesche, Rosaria Lo Russo ha recitato i suoi due monologhi nella
serata di Poesia Festival a lei dedicata. La scena della grande corte
faceva da sfondo efficace alla sua figuretta snella, vestita di un abito
nero un po' liberty e ai capelli biondi illuminati dal riflettore. E poi
la voce, forse l'arnese più affascinante dello spettacolo-recital, una
voce limpida, ma capace di sonorità gutturali, melodica e dissonante,
adattissima ai suoi versi.
Rosaria Lo Russo arriva alla poesia dalla saggistica e, benché giovane,
ha un lungo percorso di pubblicazioni proprie, di traduzioni e di
«performance» come questa che ha concesso al Poesia Festival . Uno dei
due testi che abbiamo ascoltato è stato recitato da Piera degli Esposti,
mentre altre sue cose sono state messe in scena con la collaborazione di
Nanni Balestrini.
I due monologhi, Comédia e Penelope , danno voce a due personaggi
femminili diversissimi. In Comédia chi parla è una ragazza mistica e
sentimentale che nel suo sfogo sensuale e melodrammatico insieme,
utilizza espressioni di una vera mistica, la beata Angela da Foligno.
Nel suo delirante orgasmo linguistico la protagonista si offre
all'abbraccio di un'entità maschile oscura, pelosa e misteriosa, in
totale e masochistico abbandono. Ma le impennate di suoni aspri, le
assonanze difficili («O re di cuori la cui trippa fiacca mi rende
stracca») e i nonsense parodizzano l'abbraccio luttuoso e ne viene
un'immagine tutta spigoli e ironia corrosiva di un modello femminile fin
troppo abusato.
Così Penelope (il volumetto dallo stesso titolo sarà tra poco in
libreria per Bompiani) non è la moglie modello, ma una casalinga
nevrotica che vive tra vasetti di conserve, pretendenti pelosi e
nerboruti, per cui non sente nessuna attrazione, «ciabattando fra il
vacuo cincischio operoso delle ancelle».
E se Ulisse ritorna? «Mi sa che giro il culo e me ne vado, mi sa che non
ti riconosco». Non è difficile ravvisare il profilo che da sempre la
tradizione assegna alla moglie fedele e obbediente, ma visto dalla parte
di lei che non ne può più di casa, cucina e magari orto, visto che siamo
a Itaca, notoriamente isola agreste. «Da vent'anni labbropendulo ogni
poco mi segno / e metroquadro a salvaguardia i tuoi possessi / con una
spessa cotenna di scontento e contegno / e l'ancella alle calcagna tappa
le conserve».
Anche quella di Rosaria Lo Russo è dunque un poesia che si muove sul
filo della dissacrazione, tra ironia e amarezza, proiettando, come tanta
poesia di oggi, i propri fantasmi «picconatori» su alcune icone abusate
della tradizione, icone femminili appunto. Ma forse per rinnovare il
nostro modo di vedere il passato bisogna cominciare proprio da lì.
|
|