Scriveva Slovskij,
forse il più grande dei formalisti russi del Novecento, caposcuola di
una corrente critica che ha innovato profondamente il modo di leggere
i testi, che un classico va trattato come Ivan il Terribile trattava i
suoi servi: con il bastone e la frusta. Solo se siamo in grado di
batterlo e urtarlo, riusciremo a farci dire tutto quanto ha da dirci.
E' proprio quello che fa Matteo Belli con la sua compagnia di
musicisti e attori alle prese con l'immortale episodio della morte di
Ettore nell 'Iliade .
E così aveva fatto per Dante e la Commedia nelle rappresentazioni
dell'anno scorso. Intendiamoci: nessuna prevaricazione violenta, ma la
penetrazione sapiente nelle fibre profonde, dove il linguaggio cede i
suoi segreti e si allontana l'eco delle innumerevoli letture che la
tradizione secolare ha deposto sul testo, come le bende sul corpo di
una mummia.
Ospite anche quest'anno del Poesia Festival di Verona e della
Valpolicella, l'attore bolognese ha messo in scena al Teatro Romano
una grande, solenne cantata drammatica, con un coro di giovani attori,
quattro voci soliste, fra cui quella di Belli, e l'Ensemble Bradamante,
un gruppo di musicisti che esegue le musiche di Paolo Vivaldi, musiche variegate da molteplici sonorità interetniche.
Il pubblico numeroso, come è ormai consuetudine per gli spettacoli di
questo Festival di poesia, se si aspettava una composta riesumazione
dell'Iliade neoclassica che abbiamo conosciuto (o misconosciuto?) sui
banchi di scuola, è rimasto deluso. L' Omero di Belli e del suo valido
traduttore, Francesco Franchi, non esce dalla metopa di Lord Elgin,
candida e asettica nella sua metafisica perfezione. E' un Omero remoto
e barbarico, segnato da un Oriente senza tempo, senza esotismo, carico
di dolore umano e di morte.
La vicenda della morte di Ettore in battaglia si è caricata
dell'emozione della musica e delle voci che sono,
in questa partitura intensa, anch'esse musica, dissonante e tragica.
Tutto il pathos della guerra come dolore e violenza, della forza come
esplosione selvaggia di vendetta, ha trovato il suo dove nelle voci
degli attori sapientemente alternate nella narrazione del terrore e
della virtù bellica della vittima, nello strazio di Priamo e di Ecuba,
nel lamento lugubre di Andromaca, vedova, e di Astianatte, orfano e
derelitto. Anche Ettore è un eroe, ma ha paura, Achille è una macchina
di vendetta, gli dei impotenti guardano dall'alto il compiersi del
destino.
Ci eravamo forse dimenticati che Troia è una città orientale, che i
Greci hanno sempre dall'antichità dialogato o lottato con l'Oriente.
Le voci dei cantanti, il suono degli strumenti ci ha riportato questo
oriente tragico e distante sotto gli occhi e ci ha fatto ricordare che
il poeta Omero è rappresentato con
lo strumento musicale della "lira", è chiamato "cantore". La parola
poetica cioè nasce insieme alla musica e si completa con essa.
In questi tempi in cui invano le bandiere della pace hanno sventolato
a tutti i balconi e le finestre, la poesia omerica ha evocato con
parole semplici e potenti che cosa è la guerra, vissuta dalla parte
dei vinti. Gli sconfitti, i morti, i fanciulli privati degli affetti e
del diritto stesso di sopravvivere non hanno un'epoca precisa: sono
contemporanei oggi come duemila anni fa. Ma per farci riscoprire
questa straordinaria attualità del testo omerico bisognava farlo
uscire dal suo involucro, dove stava imbalsamato, e farci sentire di
nuovo le emozioni che forse sentivano, come ora le abbiamo sentite
noi, gli ascoltatori antichi.