Poesia Festival. Incontro a Villa Bertoldi
di Settimo
Conte, la riscoperta del
linguaggio mitico
Ma anche la protesta per la violenza e l’amore
Paola Azzolini
Nella sala a terreno
di villa Bertoldi, a Settimo di Pescantina, Giuseppe Conte si è
offerto con grazia e sapienza alla curiosità discreta e all'interesse
del pubblico di Poesia Festival. E non poteva essere diversamente,
perché la sua poesia, nuova per questi tempi di sperimentalismo
raziocinante e di tecnologia, ma di fatto antica e con radici eterne,
parla dell'io del poeta, della sua storia, del suo cammino fra il
dolore e gli ostacoli del vivere, della natura e dell'anima e del mito
che abita in tutti noi.
Stefano Verdino ha efficacemente inquadrato la vicenda creativa di
Conte, dal primo libro del 1979, L'ultimo aprile bianco , alle
esperienze più recenti, anche narrative, alle traduzioni dall'arabo
(il poeta Adonis che Conte ha fatto conoscere in Occidente). Il primo
libro era carico di cadenze montaliane, del primo e più grande
Montale, che risuonano però diverse. Al Montale degli Ossi di
seppia non si può chiedere "la parola che mondi possa aprirci".
Conte, ligure anche lui, mentre riscopre negli scogli e nella natura
scabra della sua terra lo stesso amore del suo grande predecessore,
per le creature e per l'uomo minacciato, rilancia però la speranza di
una poesia che sappia trovare nelle cose la parola del mito, come
energia spirituale, come grande domanda sui primi perché. Perché Conte
ama i classici, anche italiani, così spesso negletti, Foscolo,
Alfieri, Leopardi e come per loro, il fine della poesia per lui è
ancora una parola capace di dare senso al mondo.
Poi il poeta legge con tono piano e distaccato alcune delle sue
composizioni. Ne viene qua e là come un trasalire di racconto, anche
se questa è lirica nel senso alto e romantico del termine: la
giovinezza sofferente, solitaria, gli anni dell'università, dove
trionfa la cultura d'avanguardia, la poesia di Sanguineti e Balestrini,
la musica di Cage, un sapere analitico, lontano dalla poesia. Poi "la
conversione": la lettura di Hillman, di Spengler, di Alce Nero, lo
sciamano Sioux, i viaggi in Messico, in Irlanda alla ricerca della
sapienza originaria dei Celti. Come accennavamo, la poesia di Conte
nasce dalla riscoperta del linguaggio mitico del mondo, dall'azzardo
della parola che vuole ridare senso al mondo.
Ma è anche una poesia di protesta per la violenza che abita la cultura
occidentale, contro gli uomini e contro le cose. In Lucus Birmani
una Diana ligure, dea dei boschi per i romani, riappare fra le
felci e i pini, invocata per un ritorno all'infanzia favolosa, quando
il poeta era "un bambino arcere" che oggi, come allora, chiede di
poterle cadere vicino. L'amore è la forza primigenia che possiede il
mondo e il lungo, violento abbraccio di due tartarughe diventa il
simbolo in Il pomeriggio d'amore di due tartarughe, di una
sensualità, di un piacere panico che gli umani hanno
dimenticato:"carezzare è difficile per chi crede di avere un'anima".
Calvino in Palomar descrive un episodio simile, ma dopo Conte.
Con lui si scusò di questo plagio involontario. Infatti il testo
poetico non lo conosceva. Strane coincidenze creative! Così Conte e
Calvino diventarono amici e Calvino aiutò il poeta più giovane a
raggiungere la notorietà anche all'estero, dove oggi i suoi testi sono
tradotti e conosciuti.