Si è chiuso ieri nella
Sala Montanari della Società Letteraria il convegno «Vittorio Alfieri e
Ippolito Pindemonte nella Verona del Settecento», promosso in occasione
delle celebrazioni alfieriane per il centenario(1999-2003) dal
Dipartimento di Romanistica dell'Università degli Studi di Verona,
coordinatore il professor Gian Paolo Marchi, con la partecipazione di
varie istituzioni culturali cittadine (Accademia Filarmonica, Accademia
di Agricoltura, Biblioteca Civica, Società Dante Alighieri, Società
Letteraria).
In tre giorni intensi di lavori, aperti dal saluto del rettore Elio
Mosele e di altre autorità accademiche, i convegnisti, specialisti di
studi alfieriani e pindemontiani (Cerruti, Benucci, Arato, Dillon Wanke,
Cappellari, Mazzotta, Fedi, Camerino, Longoni, Quadranti, Forno, Fabrizi,
Luzzitelli,Verdino, Bertazzoli, Benzoni, Annoni, Viola, Marchi, Fabi,
Fingerhurt, Pizzamiglio) hanno tracciato un efficace ritratto dei due
personaggi e messo a punto i problemi e gli obiettivi che gli studiosi
si prospettano per i prossimi anni. Mancava Paolo Rigoli,
improvvisamente scomparso a pochi giorni dall'inizio del convegno, uno
studioso veronese molto apprezzato e amato, che è stato ricordato, con
termini di commossa partecipazione, dal professor Marchi.
Ma una delle caratteristiche, probabilmente rare in riunioni di studiosi
come questa, è stata l'immersione non solo nei problemi letterari e
filologici della Verona settecentesca, ma anche il concreto soggiornare
nei luoghi più significativi e affascinanti in cui si mossero le figure
dei due protagonisti, luoghi dove è segnata la fisionomia della città in
questo periodo, tra tramonto dei lumi, ascesa rivoluzionaria e
Restaurazione.
I convegnisti hanno lavorato nel salone affrescato con i medaglioni
dalle iscrizioni greche di poeti classici, di Palazzo Giuliari,
nell'aereo spazio della sala dell'Accademia di Agricoltura Scienze e
Lettere, dove il settecento pittorico trova una delle sue più
significative espressioni, nella Sala Maffeiana del Museo dallo stesso
nome, voluto da uno dei più grandi ingegni veronesi del Settecento,
Scipione Maffei, infine negli spazi armoniosi e già neoclassici della
Sala Montanari della Società Letteraria.
Ma l'idea migliore, suggerita dalla passione erudita e letteraria
dell'organizzatore, Marchi appunto, è stata quella di condurre questi
posteri dei due grandi, che i due grandi hanno continuamente evocato,
nelle ville dove si svolse una parte cospicua della attività, degli
studi e degli amori di Ippolito Pindemonte, villa Mosconi Bertani a
Novare, Villa Serego Alighieri a Gargagnago.
Quanto ad Alfieri, con la Contessa D'Albany soggiornò a Verona, dopo il
1792, ospite dell'Albergo Due Torri, allora il migliore della città.
Volevano soprattutto visitare le colline di Avesa, dove, nella sua
casetta, Ippolito aveva composto le «Poesie Campestri», piene
dell'ispirazione della ninfa gentile, la melanconia. È una sensibilità,
che nasce allora, per questi stati d'animo vagamente crepuscolari, per
la poesia delle stagioni e anche per il sublime spettacolo delle
montagne. Un segno anche questo della dimensione europea di questi
autori, se si pensa ai contemporanei Kant e Rousseau.
Ancora un elemento di concretezza è venuto dalle immagini, i ritratti,
in particolare il ritratto del Pindemonte, di mano ignota, esposto alla
Biblioteca Civica, di cui si è suggerito un possibile autore.
Si affacciano in queste relazioni, talvolta pittoresche, non soltanto
dotte, le donne, le "salonnières" o signore dei salotti del tempo, come
l'affascinante Isabella Teotochi Albrizzi, veneziana e familiare o
amante di molti grandi, tra cui Foscolo e lo stesso Ippolito; o la
veronese Isabella Curtoni Verza, attrice drammatica per diletto sulle
scene del Filarmonico e amabile intrattenitrice di ufficiali francesi
durante l'occupazione.
Arrivano anche a Verona le fiamme della Rivoluzione francese e
l'adesione cauta alle promesse di libertà o la sostenuta reazione a
qualsiasi cambiamento si mescolano fra i nobili dotti e classicisti alle
discussioni sul genere tragico. Perché è la tragedia il banco di prova
della eccellenza poetica e già allora l'Alfieri, pur discusso per la sua
durezza di stile, era ritenuto il vertice del teatro italiano. Alla
rappresentazione della Mirra, a cui aveva assistito con la Contessa
Guiccioli, Byron, il poeta inglese del Giaurro, in viaggio in Italia,
viene preso da una commozione che si trasforma in vere e proprie
convulsioni, segno del profondo che il teatro è capace di smuovere.
Ma la tragedia continua ad essere uno spettacolo per pochi intenditori
colti. Anche gli attori sono dilettanti spesso nobili (Alfieri stesso
recita il «Saul»), perché la tragedia italiana nasce per la lettura
piuttosto che per il palcoscenico. Con un'eccezione almeno, le tragedie
di Giovanni Pindemonte, fratello di Ippolito, che portano in scena una
serie di elementi realistici (il pollaio del «Cincinnato»!) e vengono
recitate per sessant'anni, anche da attori come Gustavo Modena. Ma
Giovanni, a differenza del moderato Ippolito, era uno spiritaccio acceso
e anticlericale, massone, che piaceva ai patrioti risorgimentali, laici
anch'essi. Il suo teatro con la presenza di elementi visivi di scena, di
musiche e di balli era sulla strada della modernità.
Per chi poi volesse approfondire i temi e i problemi che sono rimasti
sul tappeto sarà utile tornare al Fondo Pindemonte della Biblioteca
Civica, recentemente ordinato insieme a quanto resta della sua
biblioteca, ricchissima, ma mutilata da guerre, vendite, traslochi. Non
meno importanti i volumi dell'Edizione nazionale delle Opere di Vittorio
Alfieri che stanno avvicinandosi rapidamente alla pubblicazione
integrale di tutto quanto Alfieri ci ha lasciato, non solo come opere
compiute, ma come abbozzi, appunti, lettere ecc.
Come tutti gli incontri di studio riusciti, anche questo offre spazio
per lavori futuri.
Paola Azzolini